Racconti

Amistad

26 Apr , 2018  

di Giuseppe Carelli

Questa è l’era delle celebrità, non degli eroi. È l’epoca dei famosi, non dei primi. La parola eroe appartiene ad un contesto passato, fuori dal tempo, dove era possibile la presenza di grandi personalità le cui azioni avevano un forte significato, un impatto magnetico che si rifletteva nel quotidiano. Nella storia del Vecchio Gioco, cioè di uno specchio dello sviluppo sociale di un paese con tante virtù e colpe, si possono trovare pagine nascoste e annerite dal tempo. Con un pizzico di retorica si potrebbe dire che spesso, la Verità, si cela proprio all’interno di queste pagine oscure. E se è vero che ricercarla è sempre stato un traguardo ambìto dall’umanità, ciò è dovuto al fatto che essa rappresenta una fonte di salvezza.

Soffiando sulla polvere di queste pagine, si possono trovare i peccati nascosti, ma anche potenti figure umane che hanno prosperato nell’oscurità.
J.J.O’Neil è un eroe. Non nel senso sportivo dell’atleta che realizza l’homer vincente alla nona ripresa con 2 out, ma come essere umano verso il quale tutti dovrebbero rivolgere il proprio sguardo. La sua vita è il riflesso di un passato amaro, quello che il suo paese ha riservato alle persone di colore. Ma non c’è amarezza nei suoi occhi, perchè la sofferenza e la solitudine sono state abbandonate per dare spazio alla luce dorata del sorriso e della generosità.

O’Neil è l’eroe riscoperto, un amico, un mentore. È come Jackie Robinson. È tutto ciò che può essere identificato come il progresso dell’uomo. Quando J.J. parla è come essere investito da una forte carica elettrica che ti pervade e ti magnetizza. Non è il piacevole formalismo di una stretta di mano che dice: “È stato un piacere conoscerla, Mr O’Neil”, oppure, “Onorato di averla incontrata, Mr O’Neil”. No, non è tutto questo.
Le sue parole sono l’incanto di un abbraccio, la vicinanza del cuore. “Non siate così formali, non nascondetevi dietro atteggiamenti convenzionali”, così è J.J.O’Neil. Nato a Carrabelle, FLA, nel 1911, O’Neil è stato un pò come un vecchio relitto abbandonato negli abissi dell’oceano. Ci ha pensato Ken Burns nel suo documentario BASEBALL, a riportarlo alla luce fornendo una forte testimonianza di quel mondo parallelo e sfuocato rappresentato dalla Negro League.

O’Neil aveva un arsenale di nicknames. Qualcuno lo chiamava Jay, oppure Foots, Country e Cap ed anche Nancy, quest’ultimo riferito ad una storia che coinvolse Leroy Satchel Paige. Ma il suo soprannome più famoso è stato Buck, quasi una contraddizione perchè a John Jordan O’Neil non interessavano i bucks, i soldi. Per lui, giocare a baseball è stata una cosa meravigliosa, niente di meglio per un essere umano perchè ti riempie di gioia come il sesso e la musica. Niente lacrime per Buck. Non se n’è andato troppo presto, tutto è successo nel periodo giusto. Non c’è una storia triste da raccontare. La vita di Buck, come lui stesso ha affermato, è stata una benedizione. Lui ha visto personaggi come Connie Mack, John McGraw e Babe Ruth, lui ha giocato prima base per i Kansas City Monarchs, la prestigiosa squadra della Negro League. Buck ha giocato con Satchel Paige, Josh Gibson e Cool Papa Bell e ha visto crescere Ernie Banks, alias Mr.Cubs. Ha insegnato il baseball ad un giovane Lou Brock e ad un giovane Bo Jackson.

Babe Ruth?, dice Buck, “Wow, il sound della mazza contro la pallina era come la dinamite. Se lo sentivi, anche senza vederlo, sapevi che non era Gerhig o Lazzeri. Lo stesso sound l’ho sentito nel 1938, al Griffith Stadium. Sono corso fuori dagli spogliatoi in maglietta e con i pantaloni slacciati. Non era Ruth, era Josh Gibson. Dio, quanto era forte quell’uomo”. Oltre a Gibson c’erano tanti altri giocatori nella Negro league in grado di competere contro i migliori majorleaguers del tempo. Richie Ashburn, William Hulbert, Leon Day. E poi c’era Bullet Joe Rogan, Smokey Joe Williams, Willie Foster, Hilton Smith e Cannonball Redding. Battitori come Turkey Stearnes, Mule Suttles, Willard Brown e Willie Wells. C’è voluto parecchio tempo, ma grazie al documentario di Ken Burns e alle testimonianze di Buck O’Neil, anche le porte di Cooperstown si sono aperte per ospitare, in una sezione dedicata alla Negro League, gli antichi eroi dimenticati, le leggende di un mondo fuori dal tempo, quasi invisibile.
“Se verrò eletto nella Hall”, disse Buck, “lo devo soprattutto a K.Burns. Ero un buon giocatore, ma i buoni giocatori non fanno parte della Hall of Fame. I grandi giocatori, si. Ora voglio solo far conoscere i nomi di altri players che meritano l’elezione nella Hall. Poi, se un giorno qualcuno farà il mio nome, sarò molto contento di essere al fianco di tanti amici scomparsi”. Di fatto i negro-players erano davvero in gamba e avrebbero potuto competere con le squadre di MLB. Anche se non l’hanno fatto, hanno mantenuto la fede e hanno spianato il terreno per Jackie Robinson. Un terreno tortuoso e contorto rappresentato da quei diamanti dove Jackie fu sottoposto ad ogni forma di ostilità e disprezzo sia in campo quanto sugli spalti. “Mi serve un giocatore di baseball e non un rissaiolo”, disse Branch Rickey a Robinson, poco prima della firma del contratto. “Ti serve un giocatore senza il fegato di reagire?”, rispose Jackie. “No!”, concluse Rickey, “Ho bisogno di un giocatore con il fegato di non reagire”.

I black players non hanno mai battuto contro Lefty Grove e non hanno mai lanciato contro Ted Williams, ma dovettero affrontare Bullet Joe Rogan e la mazza tremenda di Josh Gibson. Al funerale di Satchel Paige, avvenuto nel 1982, molti dissero che fu una vergogna che Satch non ebbe una carriera in MLB. Pensare che la Negro League fosse un campionato disorganizzato, è un errore. Già ai tempi della Guerra Civile i colored giocavano a baseball e con il passare degli anni l’organizzazione diventò sempre più capillare e professionale. Tenuto conto del profondo atteggiamento razzista del tempo, fu una grossa conquista il fatto di poter disporre di 4 Leghe ufficialmente riconosciute: la Negro National League, la Negro American League, la Negro Southern League e la Negro Western League. Il programma comprendeva una All Star Game che si disputava ogni anno, oltre ai Play Off e alle Negro World Series che venivano giocate negli stadi della MLB come il Griffith Stadium di Washington e il Comesky Park di Chicago. L’affluenza degli spettatori era massiccia, dalle 40 alle 50mila persone testimoniarono la vittoria della All Star Negro Team contro la squadra All Star di MLB.
Parecchi furono i personaggi di razza bianca che rimasero affascinati da questi Negro players. Uno di questi fu James Leslie Wilkinson, il primo proprietario di razza bianca di un team della Negro League, i Kansas City Monarchs, la stessa squadra che verrà in seguito acquistata dal jazzista Louis Armstrong. Tra le mosse vincenti di Wilkinson, sia in campo organizzativo che in quello promozionale, vanno ricordate la fondazione della prima squadra di baseball femminile avvenuta nel 1909. Nel 1912 Wilkinson creò la prima squadra All Star-multietnica, che comprendeva giocatori di diverse razze tra cui indiani, negri, bianchi, polinesiani e asiatici. Nel 1930 i Kansas City Monarchs furono la prima squadra in assoluto a giocare sotto un set portatile di fari dell’illuminazione proposto da Wilkinson. Fu proprio lui nel 1945 ad offrire il primo contratto professionistico a J.Robinson per giocare nei K.C.Monarchs. Wilkinson morì nel 1964, all’età di 86 anni e grazie a K.Burns e alle testimonianze di Buck O’Neil, è stato inserito nella Hall of Fame nel 2006.

Dei tanti soprannomi di O’Neil, quello di Nancy è il più divertente.
Successe durante un’avventura insieme a Satchel Paige. Un giorno giocarono una partita nella riserva indiana vicino a Sioux Falls nel South Dakota. Paige conobbe una pellerossa di nome Nancy e la invitò a raggiungerlo a Chicago in occasione della partita contro i Chicago American Giants. Nancy accettò l’invito e Paige le disse che la squadra avrebbe alloggiato all’Evans Hotel.
Qualche giorno dopo, a Chicago, Buck O’Neil si trovava nella hall dell’albergo quando vide arrivare un taxi dal quale scese l’indiana Nancy. Subito O’Neil le diede il benvenuto e le disse che Satch era in camera. Rivolgendosi al facchino, gli ordinò di portare i bagagli della ragazza. Passarono pochi minuti, quando un altro taxi si fermò davanti all’albergo. Dalla vettura scese la fidanzata di Paige, Lahoma, la quale non avrebbe dovuto esserci secondo gli accordi presi in precedenza con Satch. Quella visione allarmò O’Neil il quale si precipitò verso Lahoma dicendole che Satch era uscito e che sarebbe tornato a breve nell’albergo.
“Siediti qui con me”, disse O’Neil alla ragazza, “Dirò al facchino di portare i tuoi bagagli in camera”. O’Neil andò a parlare col facchino e gli spiegò tutta la faccenda. “Vai di sopra, e sposta Nancy con i suoi bagagli nella camera adiacente. Poi bussa alla camera di Paige e digli che è arrivata la sua fidanzata Lahoma”. Il facchino eseguì gli ordini ricevuti e poco dopo, scendendo le scale, con un gesto fece capire a O’Neil che era tutto a posto.

Nel frattempo Satchel era uscito dall’albergo usando le scale sul retro e si stava avvicinando all’ingresso dando l’impressione di aver fatto un giro nei dintorni. “Ecco il vecchio Satch che sta arrivando”, esclamò O’Neil.
Appena Paige vide Lahoma, le diede il benvenuto, “Ma che bella sorpresa”. Entrambi salirono le scale e andarono in camera.
Tutto sembrava risolto, tranne il fatto che quella notte, O’Neil, (che alloggiava di fronte alla stanza di Satchel Paige), sentì la porta della camera di Paige che si apriva e si chiudeva.
Un attimo dopo sentì lo stesso Paige che bussava alla porta della camera di Nancy. “Nancy…Nancy”, chiamava Paige. In quel momento la porta della camera di Paige si aprì nuovamente. O’Neil, intuendo che poteva trattarsi di Lahoma e temendo il peggio, balzò fuori dal letto e aprì la porta della sua camera. “Hey Satch, cosa succede?”. Sotto lo sguardo sorpreso di Lahoma, Paige, rivolgendosi a O’Neil, rispose “Hey Nancy, sei tu?….A CHE ORA GIOCHIAMO DOMANI?”.

Questo era Buck O’Neil. Lui non aveva storie tristi da raccontare. Questa era la Negro League, come un oasi circondata dal deserto della segregazione e dell’odio razziale. O’Neil morì nell’Ottobre del 2006, ma il suo contributo al baseball come giocatore prima, e come manager in seguito, è stato reso immortale con la costruzione di una statua in bronzo presso il National Baseball Hall of Fame Museum.
Buck è tornato alle sue origini. Ha intrapreso il viaggio di ritorno per approdare sulle rive del Niger, nel cuore dell’Africa, per ritrovare l’abbraccio della sua tribù nativa, quella dei Mandingo. Questa volta il suo Amistad, cavalcando a ritroso le onde dell’oceano, ha spezzato per sempre le catene della sofferenza.