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DIETRO LE QUINTE DI UN SUCCESSO

4 Ago , 2018  

di Cristina Pivirotto

 

Andrea Longagnani torna da un’esperienza esaltante per un allenatore: con la sua Under 22 ha vinto il Campionato europeo di Softball giusto una settimana fa. L’ho contattato per questa intervista e, come al solito, le mie domande programmate hanno lasciato il posto a una chiacchierata informale a ruota libera. Merito del coach, una persona che ha reso l’incontro estremamente gradevole. Una grande occasione per me, perché, lasciando in un angolo le domande più tecniche, ho potuto avvicinarmi alla parte che preferisco di ogni persona: sentimenti ed emozioni. Adesso vi racconto di cosa abbiamo parlato.

Delle atlete si sa a sufficienza, sono le protagoniste ed è giusto che abbiano i riflettori del palcoscenico ad illuminarle. Un allenatore, passa sempre un po’ in secondo piano: io voglio parlare di quello che pensa, dice e fa l’allenatore della Nazionale. Non ha emozioni il manager?

Ce ne ha tante, tantissime. Intanto affrontare un problema come quello di riformare un gruppo, perché quello era un gruppo costituito da 10 ragazze che avevano appena vinto con l’Under 19 e poteva già essere appagato, se si vuole, per il risultato e anche stanco per aver conseguito quel risultato. Poi dovevo integrare 7 ragazze che avevamo scelto e che potevano inserirsi in questo gruppo e combinarle con le altre. Quindi diciamo che già quello era un bel problema su cui abbiamo cominciato subito a lavorare. In questo ci ha aiutato anche il Campionato: le prime due partite sono state facili, con Ucraina e Israele. Quindi dovevamo lavorare sul farle riposare e, poi, integrare. Diciamo che tu hai in mano 17 “gioiellini” da gestire, da far riposare e da far “girare” a turno. Questa è la cosa più difficile: non devono andare “in cantina” con la testa, perché qualcuna non gioca, ma qualcuna deve entrare in momenti critici.

Questa era la mia prima esperienza, ma alla fine dell’ultima partita ho pensato “Io due campionati così non ce la faccio a sopportarli”. Sai che mi sono reso conto solo alla fine che c’erano quattro telecamere, non mi ero accorto di niente. Massima concentrazione, non mi sono accorto neppure di quanta gente ci fosse, ero concentrato e vedevo solo tutto quello che era dentro al campo.

Forse è arrivata troppo presto la prima partita con l’Olanda?

Questo sicuramente: è arrivata troppo presto e noi, che non partecipavamo da tanti anni, siamo stati messi in un girone che poi si è rivelato il più forte. Anche se questo mi ha permesso di mettere in campo la squadra che ritenevo la più forte, proprio dopo due giorni di riposo. Abbiamo giocato una grandissima partita, che poi però abbiamo buttato via. Ma quella partita ci ha insegnato tante cose: come aggredirle, quale tipologia di lanci usare, particolari che poi ci sono serviti tantissimo in finale.

Un campionato di grande successo, una squadra che macina vittorie: è difficile creare un gruppo così ben amalgamato o è il caso che le fa nascere e crescere per arrivare tutte allo stesso appuntamento pronte, brave e belle.

Non è una botta di fortuna, perché la programmazione che è stata fatta con il “Talent Team” aveva permesso loro di farsi conoscere. Magari è mancata la possibilità di stare insieme più a lungo. Queste ragazze hanno fatto due raduni, uno a Pescara e uno a Caserta, dove hanno avuto modo di conoscersi e armonizzarsi. Hanno avuto l’occasione di giocare contro squadre di A1 per tutta la stagione, facendo, se non sbaglio, nove partite. Noi coach abbiamo potuto amalgamarci insieme a loro perché abbiamo gestito le partite e questa, secondo me, è stata la chiave di volta, perché noi abbiamo conosciuto i loro limiti, le abbiamo mantenute monitorate in partita e durante il campionato. Certo poi c’è stata la Bigatton che è stata un asso nella manica. Lei lancia pochissimo in A1, perché ha davanti due mostri sacri come Greta Cecchetti e Sarah Pauly. Si è rivelata però estremamente fredda e decisa e questo è proprio merito del fatto che, secondo me, lanciasse poco. A livello caratteriale, quando una sta in panca e morde il freno, vuole essere pronta al momento in cui scende in campo e dimostrare che ha i numeri.

Questo è stato il mio “branco di lupi”. Io ho ho sempre detto alle ragazze: “Voglio un branco di lupi”. Ognuno nel branco di lupi fa il suo, ma alla fine, però la preda la catturano sempre e loro hanno proprio questa caratteristica. Quando le ho viste scendere in campo con quello sguardo, tutte, dovevi vederle, ho detto “Caspita! Adesso ci siamo!”. Volevano la vittoria, la volevano e sapevamo che era la nostra partita. Avevamo perso due partite, male, però sapevamo che quella era la nostra.

Noi le olandesi le avevamo già viste due volte, avevamo studiato bene il loro lanciatore, mentre la ciliegina sulla torta l’abbiamo abbiamo messa noi. Avevamo visto che quando avevamo presentato Bigatton come rilievo, l’avevano sofferta tanto e associata alla tipologia dei lanci, che erano dei drop e dei cambi con delle curve esterne le abbiamo veramente annichilite. In battuta loro erano forti come media squadra, battevano intorno ai 450. Noi invece eravamo sui 350, però avevamo un mix di velocità e potenza che loro non avevano.

Non era un rischio metterla dentro in finale?

Si, un rischio calcolato, ne abbiamo parlato con gli altri coach, ne abbiamo discusso, però di pancia io e il mio pitching coach ci siamo trovati tutti e due a scegliere di mettere in partita la Bigatton. Di testa avrei detto Riboldi – Bigatton, di pancia invece …

Quando un coach di una squadra di softball deve fare una scelta, decidere una partente o, ancora di più, gestire una sostituzione, magari in un momento critico della partita, come lo è stato, ad esempio il cambio di lanciatrice nella finale con l’Olanda, quanta parte c’è di razionalità e quanta di istintività

C’è tanto di istintività, non so se è dettata dall’esperienza, dagli anni che sei sul campo. Sui due ball, con le basi piene, i miei due coach mi hanno detto “Cambiala!”. Io ho risposto “No!”. Ho deciso di mettere in base la quinta (Feline Poot) perché quella poteva farci male. Quindi ho detto “Mettiamo in base la quinta e diamo una chance in più alla difesa”. Potevo anche avere torto, ma ho avuto ragione. Quando ho visto i primi due swing della giocatrice seguente ho capito che la stava giocando veramente bene.

E il doppio gioco?

Quando abbiamo visto il replay abbiamo capito che avevamo ragione noi. Abbiamo chiamato anche la commissione tecnica, solo che anche il responsabile non aveva a disposizione il replay, non ha visto che ha sbattuto sulla scarpa e poi è andata a cercare la base. Quindi nel momento che lei ha messo la mano sulla scarpa del difensore era out. Ma lì, sai com’è, è una frazione di secondo e han detto che era arrivata salva. Più di così non si poteva fare. Sarebbe finita lì la partita, non sarebbe entrato nemmeno il secondo punto.

A parte i bisogni pratici della squadra come si gestisce la capacità, il talento delle atlete?

Bella domanda, questa! Ovvio che quando hai dei talenti così, devi stare molto attento a gestirli, perché basta anche una parola a volte, un’insistenza di troppo che si crea un po’ di dissidio. Ci sono ragazze che vanno spronate e ci sono ragazze che vanno lasciate libere, ci sono tantissime sfumature di carattere. Io ai miei coach dicevo “Sapete cosa c’è? Mi piacerebbe allenarla tutto l’anno questa squadra.” Purtroppo non si può. Quindi devi stare attento, perché a livello tecnico non puoi fare nessun intervento, puoi lavorare solo a livello tattico. Ci sono le ragazze che soffrono ogni più piccolo errore e ci sono atlete che si arrabbiano se non le fai giocare. Io le capisco, perché so che l’atleta vuole primeggiare, quindi niente opposizione. Le capisco. Immagina quante tensioni con questi caratteri, però io ho ribadito che voglio i lupi anche del dugout, perché ci sono stati tanti cambi da fare, fra battitori e corridori, e se non fossero state pronte, mi sarei fregato. Quando ti giri verso le tue atlete e i loro occhi non ti cercano, vuol dire che non sono pronte, quando ti giri e gli occhi ti cercano, so per certo che quelle sono pronte.

Sono alchimie che devono essere azzeccate, qualche volte anche con la fortuna. Alle ragazze abbiamo detto “Siamo qua con un obiettivo e questa nostra prestazione non vuole alibi, non vuole niente che si frapponga fra noi e il nostro obiettivo.” E questo loro l’hanno veramente capito. Non c’era stanchezza, non c’era inimicizia. L’obiettivo ce l’avevano in testa, sembravano dei killer, a volte.

Questo gruppo già così fornito a livello tecnico, un gruppo, come dire, “pronto per l’uso” da gestire dal lato più personale e di tattica, determina una visione del panorama dei tecnici del campionato italiano, rassicurante, in quanto a valore?

Si. Ti dico di sì. In Italia il livello tecnico è migliorato molto in questi ultimi anni. Parliamo di atlete di 22 anni con un margine di miglioramento ancora notevole, ma sicuramente ho visto delle buone cose, quindi a livello tecnico si sta lavorando bene. Questo non vuol dire che non si possa migliorare, soprattutto in pedana. Ho preferito non portare nessuna delle atlete che avevano lanciato nel campionato U19, a parte Alexia Lacatena, perché erano “cotte” e rischiavano di essere toccate troppo dalle mazze avversarie, rovinando la loro autostima, che in quel momento, era al massimo.

Io sono particolarmente attenta a certi aspetti del gruppo/squadra. Puoi dirmi come curate il senso di appartenenza che queste ragazze hanno dimostrato, in modo anche più marcato delle altre, fino a cantare l’Inno anche senza il sonoro di routine?

Ho usato una frase che ha colpito le ragazze: se tu vedi la parola “ITALIA” è composta da 6 lettere, esattamente come erano 6 i giorni del campionato. E abbiamo detto “Dobbiamo conquistarci una lettera al giorno e le lettere, se le guardate sono tutte unite, come noi e, guarda caso la scritta Italia sulle nostre divise sale andando in direzione del cuore. Se noi uniamo tutte queste lettere e stiamo insieme, alla fine ci conquistiamo qualcosa di importante.”

Noi abbiamo avuto una team manager molto giovane, ma molto sanguigna, Claudia Venturini e anche lei ha usato piccole soluzioni finalizzate a richiamare l’unione. Ha portato la moka con la scritta Italia. Preparava la colazione per tutte. Anche lì abbiamo avuto un vantaggio. Eravamo in piccoli appartamenti non in albergo. Però la colazione la facevamo sempre tutti insieme. La moka aveva lo stemma dell’Italia, quindi anche questo contribuiva a creare piccole porzioni di unione. Vestivamo sempre tutti con la maglia dell’Italia, non uscivamo mai senza la maglia della squadra. L’ultimo giorno hanno avuto il permesso di indossare quello che volevano. Non volevamo che andassero neppure in ciabatte, quando indossavano la maglia dell’Italia. Quelle poche volte che abbiamo potuto farlo, ci hanno visto in giro per il paese sempre tutte in ordine e tutte vestite nello stesso modo. Eravamo un gruppo anche fuori. Questo,secondo me, contribuisce a creare appartenenza.

Le squadre in finale sono le stesse dell’U19 è questo il panorama europeo. Cosa significa questo? Ci sono cambiamenti in atto?

Direi di sì, ma bisogna fare delle precisazioni. Il movimento che va verso le Olimpiadi ha portato qualche cambiamento. Cioè il fatto di poter andare alle Olimpiadi ovviamente, porta lustro, porta soldi, porta un grande indotto e se guardo l’Irlanda e la Gran Bretagna erano imbottite di americane e buone giocatrici che hanno fatto, per quelle nazionali, due campionati europei, con qualche aggiunta per l’U22. Poi il livello di base rimane quello del campionato di ciascuna nazione. La Gran Bretagna aveva le prime quattro o cinque di un buon livello e poi c’era uno scalino. Noi per esempio quello scalino non lo avevamo. Tutti i nostri line up sono stati costruiti con un’ottica alla distribuzione di velocità e potenza.

La sorpresa è stata l’Irlanda: sei d’accordo?

Si. L’Irlanda per esempio ha rinunciato a giocare contro di noi. L’Irlanda nella partita persa per manifesta non ha messo dentro la sua lanciatrice migliore, nonostante si giocasse l’accesso alla finale. Però probabilmente ha valutato che la forza d’impatto che potevamo avere noi sarebbe stata un danno, nel senso che se la mandavamo fuori noi loro sarebbero arrivate quarte utilizzando il meglio che avevano. Invece in quel modo si sono assicurate il terzo posto e per una nazione che va in finale U19 e arriva al secondo posto e arriva al terzo posto nell’U22, una nazione che è appena nata sportivamente parlando, secondo me, è un grande risultato. Avevano anche loro 4 o 5 americane dalla seconda divisione. Noi sapevamo che Bigatton avrebbe dovuto lanciare il giorno dopo e abbiamo cercato la manifesta per farle risparmiare lanci. Devo dire che il nostro staff è stato grande: il dottore che ha seguito queste ragazze con estrema attenzione, la massaggiatrice che lavorava anche la notte a sciogliere i muscoli. Uno staff che andava a fare la spesa di notte per poter far fare alle ragazze una colazione secondo i bisogni delle atlete. Uno staff di persone splendide.

L’allenatore di una squadra di softball deve essere speciale?

Io dico sempre che deve essere una torta multistrato, sai come quelle che facevano le nostre mamme, con tanti gusti. Io vengo dal baseball e ho fatto l’ultimo anno di baseball con Gibo (Gerali) quando con il Parma abbiamo vinto l’ultimo scudetto. Poi da lì ho detto basta con il baseball. C’era la squadra di softball del Collecchio che era penultima in serie A2 e vedevo in quelle ragazze tanta potenzialità e pensavo “Che peccato che queste ragazze non ottengano di più” e, casualmente, un dirigente mi ha detto “Perché non le alleni?” e in tre anni ci siamo giocati le finali ai play off. 

A differenza degli uomini se la donna si mette in testa una cosa, un obiettivo lo raggiunge molto più facilmente. Un grande aiuto per un allenatore. In una squadra di donne si creano le dinamiche dei gruppetti, c’è un legame con una o due amiche. Quando tu richiami, anche per cose futili, una giocatrice, l’amica se la sente anche un po’ sua. Ecco questo mi crea problemi di gestione. Oppure ti senti dire “ Ma perché tu due anni fa mi hai detto …” quindi devi stare molto attento a giocare con queste situazioni. Però hai il grosso vantaggio che se decidi con loro un obiettivo e se lo mettono in testa, quell’obiettivo lì, loro lo raggiungono. Questo ha anche cambiato il mio atteggiamento nel rapporto con le donne. Mi ha migliorato: prima mi arrabbiavo molto di più. Ho imparato a stare calmo, so che posso fare una osservazione, magari anche con un tono duro, ma in genere non mi arrabbio più. Poi ci sono i momenti in cui i nervi saltano, ma sono sempre episodi isolati. Con queste ragazze non mi è mai capitato. Loro sono già determinate in ogni cosa che fanno. Sono atlete disciplinate: stanno attente a quello che mangiano, vanno a letto presto, non le senti fare confusione.

C’è una domanda che avresti voluto che ti facessero e nessuno ha fatto?

Si. Nessuno mi ha chiesto se ero convinto di andare a vincere un europeo.

E la risposta quale sarebbe stata?

Nel momento in cui ho cominciato ad allenare queste ragazze ho sempre pensato all’oro, ho sempre e solo pensato all’oro. Non mi sarei accontentato di andare solo a giocare la finale. Ovvio che non sapevo come giocassero le altre squadre, quando ho visto l’Olanda ho detto “Caspita!”, però neppure le olandesi mi hanno mai fatto perdere di vista l’oro, anzi mi sono convinto anche di più che avremmo potuto batterla in un certo modo e ci siamo riusciti.

(Fonte immagini: FIBS)