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GOING HOME. Un viaggio nel baseball, intriso di malinconia

18 Mag , 2020  

di Ignazio Gori

Io odio questo gioco. Io odio il fatto che sei un numero, che la gente non ti guarda per quello che sei, che sei solo uno su milioni, prima di te e dopo di te, odio il fatto che non puoi esultare se fai una bella giocata, odio il fatto che fino al giorno prima sei da una parte e il giorno dopo ti trovi a vendere frigoriferi al Walmart. È un gioco crudele il baseball, capace di grandi vittorie, ma anche di grandi sconfitte, dove alla fine sei solo un vinto, dove la redenzione non fa per te.”

Certo questa citazione diretta potrebbe confondere le idee ai fedeli delle centootto cuciture che, armati di buoni propositi, si siano apprestati, freschi della lettura magari di questa mia umile recensione, a comperare il libro. Ma Going Home (Amazon Self Publishing, introduzione di Alvin Valsangiacomo, pp 182, Euro 10) non è un semplice atto di odio-amore per l’old game, ma un vero urlo a favore dei sommersi, dei tanti desaparecidos del mondo delle Minor Leagues e non solo; di quegli eroi figli di un dio minore, al cui altare anche Pietro Striano, uno degli storyteller della pagina facebook Ascesa dei Vinti, si inginocchia regolarmente, da una sorta di esilio nordico (l’autore infatti vive in Estonia, dove il baseball non è propriamente nelle headlines dei tiggì nazionali) che fa sorridere e intenerisce.

Chi non abbia mai sentito parlare di Joe Bauman, dei Savannah Bananas, di Moses Fletwood, il primo afroamericano nel baseball professionistico (e parliamo di ‘800, molto prima di Jackie Robinson), di Sam Suplizio, nomen omen, dell’incredibile avventura nella NWL dei Portland Mavericks di Bing Russel, papà dell’attore Kurt, storia che ha ispirato il recente film per Netlfix The Battered Bastards of Baseball, o ancora del puro amore per il gioco del Colonnello Fitzgerald, agli albori della Mlb, di Louis Sockalexis, il primo nativo americano tra i pro, dell’amicizia fraterna tra Bagwell e Biggio, della tragica morte di Ken Caminiti, della sconosciuta lega giappo-canadese, di John Lazar, del santone pacifista Harry Kingman e infine di Al Stump, arricchitosi scrivendo una falsissima biografia di Ty Cobb, il più grande di tutti i tempi (altro che Babe Ruth, concedetecelo) … ecco, se non conoscete queste storie, il libro di Striano vi farà passare una nottata di riflessione, non mancando di ironia ovviamente e chi ha letto il bellissimo Black Jesus di Federico Buffa potrà già intuire qualcosa.

Come si fa a non essere romantici col baseball? Sembra questa essere la domanda inquisita nel libro di Striano, il quale più volte insiste che il baseball è tutto tranne che romanticismo, sfatando uno dei motti di molti fan del diamante. Il baseball è spietato, è un gioco da frontiera, esalta e devasta il singolo, allo stesso tempo business e liturgia religiosa e l’autore, che ama crogiolarsi in una diversa malinconia, quella appunto dei “vinti”, preferisce mettere al centro del racconto la vicenda umana dei protagonisti, la storia non ufficialmente raccontata, la passione … non le statistiche, non la Hall of Fame o i teatri imbellettati della notorietà popolare. Amarezza dunque, polemica mascherata d’ironia, perché queste “cinderella stories”, queste favolacce di baseball, queste periferiche epifanie che appassionerebbero i fratelli Coen, oltre al sudore estivo sulle maglie, che ti rimane appiccato addosso, all’odore del cuoio che si infila nelle narici, oltre ad essere l’epica sublimazione della sconfitta … sono soprattutto il sentiero migliore per tornare a casabase. Going Home, appunto.