Racconti

La linea ideale 2

13 Mar , 2018  

di Cristina Pivirotto

Foto:  Adieffe

 

[Siamo uniti in una squadra, ma noi tre siamo segmenti della stessa linea, parti dello spazio che ci unisce e lavoriamo per schemi fatti di  tempo, sicurezza e sensibilità. Basta uno sguardo. Spesso non ci sono parole, ma ci sono gesti particolari e tipici, c’è la determinazione anche nei segnali che ci mandiamo.

Sappiamo dare consistenza alla distanza  che ci divide e ci troviamo sempre pronti ad aiutarci. Siamo noi, su questa linea del campo, l’unica non tracciata con il gesso bianco, ma noi la vediamo ugualmente ed è importante, perché siamo noi  il sostegno di tutti gli altri.

Le nostre storie sono fatte di risolutezza, di mortificazioni e di gioie profonde.

Lasciateci parlare.]

 

 

Ho diciassette anni, non sono neppure maggiorenne. Faccio il lanciatore. Non era questo che volevo, quando ho cominciato a giocare a baseball. Ero così piccolo e tutti facevano tutto, alla scuola di baseball. Allora ho dovuto lanciare anche io. L’ho fatto bene, con impegno e sono diventato una sicurezza per la mia squadra.

Il mio allenatore era stato un discreto lanciatore di serie A, io avevo fiducia in lui. Con pazienza infinita mi ha insegnato a perfezionare la tecnica, a impugnare la palla nel modo giusto, a rimanere calmo, anche nei momenti più difficili.

Poi sono cresciuto ed è cresciuto anche il mio corpo.  Le gambe si sono allungate e io ho dovuto cercare un altro assetto.

E’ arrivato un pitching coach da Cuba, un grande lanciatore professionista. Gli ho chiesto di aiutarmi a cambiare il mio caricamento, perché era brutto, dinoccolato, sgradevole a vedersi. Lui mi ha risposto che non l’avrebbe fatto, perché io tiravo bene così.

Diretto, sincero, spietato. Ma mi piaceva, lui era come me: ore e ore passate ad allenarsi insieme, poche le parole scambiate. Io lanciavo e poi cercavo con gli occhi i suoi occhi. Con un cenno del capo lui mi diceva che potevo lanciare, che lo facevo bene,  che dovevo continuare in quel modo.

Ho vinto tante partite, nelle serie minori, tanti titoli. Con il mio brutto caricamento ho vinto partite dominate dall’inizio alla fine, così come quelle tiratissime, risolte con la mia calma e i miei lanci sghimbesci.

Adesso sono un seniores,  uno “adulto”. E soffro. Soffro perché ho un pitching coach che non ha mai giocato da lanciatore, ma vuole cambiare il mio caricamento. Faccio finta di non capire i suoi insegnamenti, impartiti mentre se ne sta seduto in panchina. Io faccio finta di non comprendere e lui continua a dire che non capisco niente.

Ma non mi importa.

Da lanciatore partente, mi ha passato rilievo.

Ma non mi importa.

Tanto sono sempre io quello che deve andare sul monte a salvare le partite perse. Non un complimento, non una parola di apprezzamento.

Ma non mi importa.

Adesso sono qui per risolvere una partita che il lanciatore partente ha affogato nei punti. Sono sul monte da sette innings e ho fermato le mazze avversarie.

Il mio compagno in prima base ha avuto uno scontro con un avversario, mi avvicino a lui per sapere come sta. Il mio allenatore mi urla, dalla panchina, di non perdere tempo. Ma io sono fatto così, i miei compagni sono anche miei amici e voglio sapere se sta bene.

L’allenatore mi insulta, ma, ancora, non mi importa. E’ uno ha giocato per tanti anni, ma nessuno si ricorda di quello che ha fatto. Io sono diverso e non voglio diventare come lui.

Mi chiedo perché continuo a giocare per questa squadra, per questi allenatori che non sanno gestire un gruppo di ragazzi giovani, che, soprattutto, non sanno insegnare. Vorrei smettere perché sono stanco delle mortificazioni e della loro incapacità.

Ma amo il baseball …

Adesso stiamo vincendo e io ho di fronte quello che potrebbe essere l’ultimo uomo di una partita recuperata. Due out e siamo sopra di quattro punti.

Lancio.

Non è buono, lo sento, non sono convinto: ho ancora nelle orecchie le male parole dell’allenatore.

Un ball. E’ conto pieno.

Scendo dal monte, faccio due passi lì intorno e soffio come un mantice.

Risalgo.

Allontano tutti i brutti pensieri, faccio silenzio nella testa.

La mano impugna la palla, la gamba comincia il mio brutto caricamento, arriva in terra e, intanto, guardo la palla, che ho appena lasciato, arrivare nel guanto del ricevitore, la mazza del battitore girare a vuoto.

Strike. Partita vinta!

I compagni, i miei amici, fanno festa, sento le loro mani darmi pacche sulle spalle e i loro complimenti.

L’allenatore viene verso di me, mi porge la sua mano e vorrei non doverla stringere. Ma mia madre mi ha insegnato ad essere educato. Ricambio il saluto, ma non lo guardo negli occhi: non se lo merita il mio sguardo soddisfatto.

Sono io, sono il lanciatore che ha vinto la partita, ho solamente diciassette anni e amo il baseball.