Racconti

La Linea Ideale 3

13 Giu , 2018  

di Cristina Pivirotto

Siamo uniti in una squadra, ma noi tre siamo segmenti della stessa linea, parti dello spazio che ci unisce e lavoriamo per schemi fatti di tempo, sicurezza e sensibilità. Basta uno sguardo. Spesso non ci sono parole, ma ci sono gesti particolari e tipici, c’è la determinazione anche nei segnali che ci mandiamo.

Sappiamo dare consistenza alla distanza che ci divide e ci troviamo sempre pronti ad aiutarci. Siamo noi, su questa linea del campo, l’unica non tracciata con il gesso bianco, ma noi la vediamo ugualmente ed è importante, perché siamo noi il sostegno di tutti gli altri.

Le nostre storie sono fatte di risolutezza, di mortificazioni e di gioie profonde.

Lasciateci parlare.

Quando mi assegnarono questo ruolo, pensai di essere stato scelto perché avevo poche qualità per essere un interno. Vissi male quella situazione per molto tempo, fino a quando, un vecchio allenatore, mi chiese perché fossi così demotivato. Quando gli spiegai cosa pensavo della mia funzione in campo, lui creò per me una storia bellissima. Avevo 10 anni a quel tempo e, quella storia, l’ascoltai a bocca aperta. Mi spiegò che essere un esterno centro era un compito ben difficile, di quelli che si devono saper portare sulle spalle, che devono essere larghe e forti.

Mi spiegò che io ero una sentinella, anzi, il comandante delle sentinelle. Ero come un guerriero epico, che i più grandi giocatori di baseball erano esterni e, contemporaneamente, eroi leggendari. Così, con lui vicino, imparai a vivere un ruolo tra il fantastico e il reale. Muovermi in quel mare verde d’erba, lontano da tutti mi faceva ancora soffrire, ma, con il tempo imparai ad apprezzarne anche i lati positivi.

L’allenatore continuava a trattarmi come fossi un eroe e io, riconoscente, sopportavo il sentirmi meno fortunato degli altri. Lui mi allenava con cura e le mie gambe diventarono sempre più forti e le mie spalle, effettivamente, più larghe.

Con gli anni ero diventato una sorta di gigante a guardia dei confini di quel campo.

Li ho odiati tante volte quei limiti estremi, quando dovevo rimanere per ore fermo, sotto quella pioggerellina che non ferma una partita, ma ti entra comunque sotto la divisa e intride gli abiti e ti fa sentire un freddo invernale anche a luglio. Li ho odiati perché, mentre io sentivo freddo, nessuno mi faceva arrivare una palla da prendere. O quando il sole delle ore più calde del giorno, in estate, mi stordiva. Li ho odiati anche quando, dopo un’eliminazione, gli interni si passavano la palla tra sé, come un rituale di felicità per aver sconfitto un altro nemico. Ma io non potevo partecipare. Eppure ero un guerriero, anche io.

Fino a quando non arrivò quell’allenatore io, lo confesso, avevo pensato più volte di cambiare sport: avrei voluto vivere uno sport che mi permettesse di essere sempre in movimento, sempre in mezzo al gruppo dei compagni.

Ma poi, l’allenatore mi fece capire che c’erano tanti tipi di sport, che il baseball richiede intelligenza, capacità di pensiero, efficacia, velocità al momento giusto e tutto era racchiuso in quello spazio temporale che io ritenevo negativo, tra emozione e autocontrollo.

Chiediti cosa devi fare se la palla arriva a te”, mi ripeteva, “Hai il tempo per pensare: fallo!”

Ma io immaginavo di essere il lanciatore, il vero eroe, quello che combatte contro il nemico corpo a corpo.

Non ricordo quale partita fosse, ma ricordo esattamente il momento in cui ho cambiato la mia idea sul valore di un esterno centro.

Avevo dodici anni e, quel giorno, giocai una partita favolosa. Chi lo sa perché accadde proprio allora … sta di fatto che quel giorno ero pieno della grazia divina del baseball. Una prima palla che vidi arrivare verso di me, divenne una facile presa al volo. Ma quello che, all’improvviso, riuscii a comprendere, confusamente, fu che io, quella palla, l’avevo già intuita, capita, interpretata, ancora prima che prendesse la direzione che l’aveva portata da me. Fu così che quello divenne il mio personale gioco nel gioco. Io ero quello che prevedeva e intercettava il colpo sparato dall’esercito avversario.

Diventai bravissimo a risolvere situazioni rischiose: chiamavo i miei compagni esterni; urlavo loro gli ordini per giocare le loro occasioni, perché conoscevo le loro debolezze. Ero quello che proteggeva il piccolo seconda base, ero sempre presente, come un gigante che protegge un bambino.

Era il suono della mazza contro la palla che risvegliava la sentinella che, ormai, era in me. Nessuno doveva superare il mio territorio.

Non che non abbia mai sbagliato, no. Talvolta l’avversario mi ha sorpreso, ma mai una volta ho lasciato andare senza provare, mai una volta mi sono risparmiato un tuffo, nel tentativo disperato di prendere quella maledetta palla. Mai una volta che non abbia venduto cara la pelle.

Avevo fatto del mio braccio l’arma della risposta, il tiro, preciso e forte, non perdonava. Ero un pericolo per chi correva sulle basi. Ero insidioso per i battitori. Mi ero fatto un nome. A quindici anni ero già conteso da società importanti.

Poi arrivò la chiamata nell’esercito più importante di tutti: la Nazionale. Tra giovani della mia stessa età mi capitò di sentirmi di nuovo debole. Ma le parole dell’allenatore risuonavano ancora nella mia testa: “Vai e fai del tuo meglio: tu puoi farlo!”. Scoprì così che la mia forza era quella che mi era stata regalata da chi era venuto prima di me. Divenni una piccola grande star, anche per la Nazionale giovanile.

Capii anche un’altra cosa, in quel periodo: battere mi riusciva proprio bene, ma neppure essere il quarto del line up mi dava la stessa soddisfazione di una buona prestazione in difesa. Ero cresciuto per lavorare per la squadra, per difendere, più che per attaccare.

Crescere così mi ha aiutato anche nella vita, nei rapporti con la famiglia, negli studi. Mi sento tranquillo e completo: so cosa posso fare e fin dove posso arrivare. Sono diventato un punto di riferimento per gli amici, così come per i compagni di squadra. Sono quello  responsabile, quello che “c’è sempre”.

Qualche volta mi sono sentito terribilmente solo. Quando la palla mi ha superato, sbeffeggiando le mie capacità e, mentre la rincorrevo, sapevo che, pochi metri più in là, il nemico avanzava a scapito dei miei compagni. E mi sentivo veramente solo: la colpa era mia. Non era il non giocare la palla, ma l’errore a rendermi vulnerabile. I miei compagni contavano su di me e io avevo tradito la loro fiducia. Il tempo, la mia forza, niente era servito a proteggerli e, qualche volta, è stato incredibilmente difficile ritrovare la lucidità necessaria per continuare.

Ma l’ho fatto e ho capito che sono diventato adulto così, in questo modo; che le storie che raccontava il mio allenatore, al bambino che ero, adesso sono ridicole, ma mi hanno aiutato a formare il carattere. Che le guerre che inventava per me, non fanno realmente delle vittime: al massimo una battaglia persa.

Non ho più pensato di cambiare sport, voglio giocare a baseball, voglio godermi l’attesa e programmare l’azione. Con calma, ché di tempo ne ho.

(Fonte immagine: Luis Royo Official Site)