Racconti

La linea ideale

18 Dic , 2017  

di Cristina Pivirotto

Foto di copertina di Davide Tassoni

 

Siamo uniti in una squadra, ma noi tre siamo segmenti della stessa linea, parti dello spazio che ci unisce e lavoriamo per schemi fatti di  tempo, sicurezza e sensibilità. Basta uno sguardo. Spesso non ci sono parole, ma ci sono gesti particolari e tipici, c’è la determinazione anche nei segnali che ci mandiamo.  Sappiamo dare consistenza alla distanza  che ci divide e ci troviamo sempre pronti ad aiutarci. Siamo noi, su questa linea del campo, l’unica non tracciata con il gesso bianco, ma noi la vediamo ugualmente ed è importante, perché siamo noi  il sostegno di tutti gli altri.

Le nostre storie sono fatte di risolutezza, di mortificazioni e di gioie profonde. Lasciateci parlare.

Abbasso la maschera sul viso. La pelle sudata sfrega contro l’imbottitura sporca di terra rossa e mi graffia la faccia, ma ci sono abituato, ormai.

Prendo un po’ di tempo, prima di rimettermi in posizione: il mio amico comincia ad essere in crisi. E’ stanco: lavora su quel monte da nove innings. Adesso devo aiutare lui e la squadra. Il punteggio è a nostro favore: me lo ricorda il tabellone sullo sfondo. Un solo punto di vantaggio e siamo all’ultima metà dell’ultimo inning. Non possiamo perdere questa partita, non possiamo proprio. Abbiamo lottato per un intero campionato per arrivare fino a qui, per vincere il primo posto. No, non possiamo perdere.

E’ il mio amico da sempre, non posso lasciarlo solo proprio adesso, sarebbe un tradimento. Non posso lasciare a lui il peso di una partita persa. Perchè se vinciamo lui sarà l’eroe e a me nessuno darà il merito. Io so di essere il regista di questo campo, di questa squadra e di questa partita, ma, per chi non è esperto, sono solo uno che riceve i lanci del lanciatore.

Invece no! Due ball zero strike, le basi cariche e due out e, si sa, “con due out si fanno i punti”. Un bel casino di situazione. La peggiore forse. Ma noi non siamo qui per caso.  Sale dalla pancia un’emozione forte e tolgo di nuovo la maschera; quell’emozione riempie i polmoni e sfoga la sua forza dalla gola: “Forza squadra, forza! E’ l’ora di tirare fuori gli attributi. FORZA!” Il mio urlo, fra tenacia e disperazione, si riflette e risuona, replicato dalle voci degli altri miei compagni. La determinazione, adesso, muove i loro gesti, sono pronti e assumono le loro posizioni, sono concentrati. Adesso devo occuparmi del mio amico.

Lo guardo, mentre torno di nuovo al mio posto. Lui guarda me e l’intesa fra noi si ricrea. Abbasso di nuovo la maschera e affronto il momento decisivo. “Nessun problema”, gli urlo; “sono io la tua certezza, vai tranquillo!” Le dita della mia mano destra si muovono veloci a disegnare segnali che solo io e lui possiamo capire.

Il battitore non mi crea troppi problemi, è il quinto in battuta, ma non è uno che possa sorprendermi. Guardo i suoi piedi: sta chiuso e io leggo, così, le sue intenzioni. Io lo so che deconcentra il mio amico, che lui ha paura di colpirlo, ma ci sono io a guidarlo e deve fare quello che gli dico. Lui non ha una grande varietà di lanci, ma sono di qualità e io ho grande fiducia nella sua capacità e nella sua precisione. Rischiamo con uno slider, “dai che lo sai tirare bene!”. Lo chiamo con un segnale, rispondi con un cenno di assenso e, quando vedo le cuciture che sembrano un punto rosso in rotazione verso di me, so già che sarà un successo. Anche l’arbitro gradisce e urla più forte il suo “strike”.

“Dai amico!”, ti chiamo una veloce interna, mi fai cenno di si con il capo: hai capito che devi fidarti di me. Eccola! E’ questa la palla che doveva arrivare: il battitore si muove appena, ma non la vede. La voce dell’arbitro chiama un secondo, sonoro “strike”.  “Va bene così, amico, perfetta così!”, stavolta non urlo, te lo dico con un tono di voce più alto, chè tu possa sentire, ma so che sei entrato nello stato di grazia di una carica nuova, che il momento di crisi è stato superato. Qualcosa che ci unisce in una comune volontà di rivalsa, passa come un’onda magnetica.

Ancora un altro lancio, dai!”.  Fai attenzione ai corridori sulle basi: uno sbaglio, anche minimo e siamo fregati. Due ball e due strike.  “Ci siamo, forza, non sprechiamo niente. Forza!”. Abbassi le spalle, fai un giro intorno al monte e respiri profondamente. “Forza, non possiamo abbandonare ora. Guardami: sono qui!” Tu lo capisci bene cosa voglio dirti, perché la nostra intesa si è affinata, nel tempo, insieme alla nostra amicizia.  “Rischiamo di più, dai!”

Il segnale del cambio di velocità parte dalla mia mano. Mi fai cenno di no. Non voglio innervosirti, ma sono convinto. Batto forte la mano sulla plastica dello schiniere. Il mio pensiero urla senza voce: “Guardami! Ascoltami! Sono io l’istinto, sono io la nota impazzita. Fai come ti dico!”. Ripeto caparbiamente, il segnale per il lancio. Nel vuoto dei pensieri generato dal momento decisivo, lui mi fa cenno che si, lo tirerà quel maledetto cambio. Non è convinto, ma so che lo farà e che lo lancerà al meglio delle sue possibilità. Un attimo di attesa e comincia il caricamento. Mi sistemo meglio in posizione. Ecco, il “cambio” è da manuale e il battitore è fuori tempo: batterlo è impossibile. Strike!

La partita è vinta! I compagni esultano, il pubblico urla e applaude, tutti intorno al mio amico per festeggiarlo. Io rimango sul piatto e guardo la scena: sono distrutto e l’emozione mi blocca le gambe. E’ finita: le braccia lungo i fianchi e il viso verso il cielo. E’ stato un successo.  Il mio amico lascia i compagni a festeggiare. Mi viene incontro sorridendo e mi regala un abbraccio carico di emozione. “Sei tu il vincitore”, mi sussurra all’orecchio e io mi sento importante. “Sei un grande.”, gli rispondo. Ci guardiamo negli occhi e l’intesa è massima: abbiamo vinto.  La batteria ha fatto un gran lavoro oggi; ciascuno di noi sa quello che ha fatto per vincere questa partita.  Spalla a spalla ci dirigiamo verso la panchina.

“Doccia e birra?”, mi chiede. “Doccia e birra”, rispondo, toccando il mio pugno chiuso contro il suo.