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“Un gioco perfetto”: intervista a Enrico Franceschini

13 Mag , 2022  

di Ignazio Gori

Enrico Franceschini (Bologna, 1956) è  giornalista e scrittore. È stato corrispondente dall’estero – New York, Washington, Mosca, Gerusalemme, Londra – del quotidiano La Repubblica.  Ha pubblicato romanzi, saggi, tradotto libri di poesia di Charles Bukowski … ma il suo primo amore è stato il giornalismo sportivo con il quale ha iniziato a farsi conoscere nella sua Bologna, città di basket ma anche di baseball. 

È proprio sul baseball il suo ultimo romanzo “Un gioco perfetto”, edito dai tipi 66thand2nd (pp.171, collana “Attese”, euro 15). 

Enrico Franceschini - "Un gioco perfetto"

Il Bar del Baseball gli ha rivolto alcune domande.

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Dopo il basket, affrontato in “Vinca il peggiore”, edito sempre dall’editore romano 66thand2nd – da sempre attento al mondo dello sport – ora è la volta del nostro amato baseball. Ma qual è stato il suo primo contatto con l’ ”old game”? 

EF. A Bologna, quando a 17 anni cominciai a scrivere di sport per il Carlino Sera, edizione pomeridiana del quotidiano della mia città. Il caposervizio sport mi mandò a seguire una squadra di basket bolognese di serie C e la squadra di baseball di Bologna, che giocava in serie A ed era una delle più forti d’Italia. All’inizio non capivo niente di basi, strike, ball. Vic Luciani, un grande campione che giocava anche in nazionale, quando gli chiesi una intervista mi guardò incuriosito e domandò se avrei scritto quell’articolo per il giornalino della mia scuola o se ero un vero giornalista. Ma poi lui stesso mi aiutò a comprendere meglio il baseball con grande generosità. Ricordo un americano, forse l’allenatore o il vice-allenatore della squadra, che mi disse: a questo livello, certi trucchi che un bravo lanciatore sa fare non vengono riconosciuti dal battitore, perciò risultano inutili. Insomma andavo a lezioni di baseball, che poi ho proseguito quando a 24 anni mi sono trasferito a New York per continuare a fare il giornalista dall’America”.  

 

È vero che questo suo ultimo libro doveva inizialmente essere una sceneggiatura per il cinema?

EF. “E’ vero e per questo devo parlare appunto dell’America, dove a un certo punto mi sono sposato con un’italoamericana grande appassionata di baseball, un po’ simile alla protagonista del mio romanzo. E’ stata lei a completare la mia educazione sul baseball, portandomi allo Yankee Stadium a vedere le partite di una delle squadre più forti degli Usa e anche spingendomi a giocare qualche partita con gli amici nei campetti che ci sono dappertutto nei parchi, con le palle più grosse e più lente, da softball naturalmente. Ebbene, il matrimonio si concluse con un divorzio, non per colpa del mio scarso rendimento nelle partite di baseball, in cui lei era molto meglio di me, ma siamo rimasti amici. Molti anni dopo, quando dopo essere stato corrispondente da New York, Washington, Mosca e Gerusalemme mi ero trasferito a Londra, dove vivo tuttora, insieme alla mia ex-moglie abbiamo scritto via email una sceneggiatura a quattro mani per un film sul baseball ambientato a New York. Provammo a cercare un produttore, senza successo. Passano altri dieci anni e ho ripreso in mano quella sceneggiatura e ne ho ricavato il romanzo di cui parliamo, ‘Un gioco perfetto’, cambiando molte cose rispetto alla sceneggiatura ma la trama è rimasta la stessa: una storia d’amore, anzi una commedia romantica, tra una giovane italoamericana squattrinata che si ritrova proprietaria e perfino allenatrice di una squadra professionistica di baseball a New York e un giornalista americano, con qualche origine italiana anche lui, che segue il campionato di baseball per il suo giornale”. 

 

Per un “fantiano” come me – John Fante tra l’altro era malato baseball, vedesi “1933. Un anno terribile” – notare che la protagonista della vicenda riporta il cognome di Bandini è una gioia supplementare.

Mi sbaglio o non si tratta di una pura coincidenza?

EF. Non si sbaglia, non è una coincidenza. Anch’io sono un grande fan dei romanzi di John Fante, li ho letti tutti e ne considero uno in particolare, ‘Chiedi alla polvere’, forse il romanzo più bello che ho mai letto. Poiché l’alter ego dell’autore, nei romanzi di Fante, si chiama Bandini di cognome, e poiché anche Fante era italoamericano e intriso della cultura dei nostri immigrati negli Stati Uniti, Bandini è diventato un cognome perfetto per la protagonista. Inoltre ha un’assonanza con il cognome della mia ex-moglie, Bondanza, che cito nella pagina finale del libro dedicata ai ringraziamenti”. 

 

Ad un certo punto del libro, Maggie Bandini esclama: “Scrivere di baseball è la cosa più bella che uno può fare se non puoi giocarlo.”

Mi ha fatto pensare alla frase del Premio Nobel Gabriel Garcia Marquez: “Al mondo c’è solo una cosa migliore del baseball, parlare di baseball!”.  

Ecco, baseball e letteratura, un connubio che ha generato dei capolavori. Da scrittore, ce n’è qualcuno che l’ha influenzata? Ispirata?

EF. “Bellissima la frase di Marquez! Se l’avessi saputa l’avrei inserita nel mio libro. Tra i romanzi sul baseball che mi hanno influenzato o ispirato devo citare dei classici come ‘Il migliore’ di Bernard Malamud, diventato anche uno splendido film con Robert Redford, e ‘Il grande romanzo americano’ di Philip Roth. Tratto da un romanzo di Mark Harris è anche un altro film del 1973, meno noto ma stupendo, ‘Batte il tamburo lentamente’, con una magistrale interpretazione di Robert De Niro. Eh, non mi dispiacerebbe se anche il mio romanzo diventasse un film, magari con Sandra Bullock e George Clooney, oppure Emma Stone e Ryan Gosling, o Anna Hataway e Bradley Cooper, nella parte dei due protagonisti!” 

 

Per il Bar del Baseball ho intervistato Sherwood Kiraly il cui romanzo “Pesci poeti e altri ricordi” mi ha non poco emozionato.

Rivolgendosi anche a chi di baseball ne sa poco, quale potrebbe essere un lettore medio, comune, che tipo di emozione le regala questo sport? E cosa intende dire nel titolo riferendosi a un “gioco perfetto”?

EF. “Nel mio romanzo scrivo, ma non sono certo il primo a dirlo, che il baseball è una via di mezzo tra gli scacchi e il fioretto: uno sport di rapidità fulminea, eleganza di movimenti e feroce intelligenza. A differenza degli altri sport più popolari negli Usa e altrove, non è uno sport di contatto fisico diretto, se non quando l’attaccante si tuffa per toccare una base e il difensore che ha ricevuto la pallina cerca di toccarlo ed eliminarlo. Eppure è anche molto fisico, nel senso che occorrono muscoli, forza, potenza. La perfezione del titolo allude sia all’esigenza di riunire tutti questi elementi, tra loro diversissimi, in un tutto unico, sia al rarissimo evento di una ‘partita perfetta’, quando per dirla in parole semplici la difesa batte l’attacco, non lasciandogli fare assolutamente niente per nove inning. Ma c’è un’altra emozione che è trasmessa soltanto dal baseball: all’ultimo lancio dell’ultima ripresa, una squadra che sta perdendo 10-0 può teoricamente rimontare, capovolgere il risultato e vincere. Come afferma il famoso detto del famoso giocatore e allenatore Yogi Berra, davvero nel baseball ‘non è mai finita finché non è finita’. Questo può succedere anche nel tennis, che però è uno sport individuale: in uno sport di squadra è ancora più complicato ed emozionante. In questo senso, per me, il baseball è una metafora della vita, perlomeno se uno la guarda con un pizzico di ottimismo: qualsiasi avversità si può rovesciare e vincere, se tutto a un tratto cominci a giocare in modo perfetto, insomma c’è sempre una ultima chance, nello sport come nella vita. E la metafora si presta anche all’amore, quello che racconto nel romanzo e in generale: anch’esso un rapporto complicato fra due parti, che quando ha successo diventa un gioco perfetto”. 

 

Questa domanda, da sfegatato tifoso dei Boston Red Sox (che San Ted Williams mi perdoni!), mi costa molto. Anche se la citazione di Yogi Berra lo rivela chiaramente, perché ha usato il sincretismo che nella fantasia della vicenda trasforma gli Yankees in Cannons?

EF. “Eh, la rivalità tra Red Sox e Yankees è qualcosa di storico e io, avendo vissuto dieci anni a New York, non posso che parteggiare per la squadra newyorchese, anche se ammetto che quella di Boston ha un fascino speciale. Nel romanzo ho dato il nome di Cannons a quelli che sono chiaramente gli Yankees per sentirmi più libero di vagare con la fantasia e per non essere accusato di alludere a vicende reali quando il gioco, a un certo punto del libro, si fa sporco”. 

 

Da un paio di stagioni il mondo professionistico della MLB ha rotto alcune “barriere sessiste” e diversi ruoli nei coaching staff sono stati assegnati per la prima volta a delle donne; una su tutte Alyssa Nakken. 

Senza svelare troppo della trama, il suo romanzo mostra una chiara apertura al ruolo che una donna potrebbe ricoprire nel mondo sportivo maschile. Non è così?

EF. “Be’, è qualcosa che vediamo anche in altri sport, dal calcio al basket: donne che allenano uomini. Nel baseball i casi del genere si moltiplicano: mentre il mio libro stava per uscire è arrivata la nomina di Rachel Balkovec alla guida dei Tampa Tarpons, che giocano nella Minor League e sono associati ai New York Yankees, diciamo la serie B per i non addetti ai lavori, ma che hanno fatto di lei la prima allenatrice-capo nella storia del baseball professionistico americano. Fa parte della crescente eguaglianza dei sessi in ogni campo, non solo nello sport. E il baseball, misto di fioretto e scacchi come ho detto prima, può essere particolarmente adatto a una donna come coach. Prima o poi dovrebbe succedere anche nella Major League, in serie A per intenderci”.

 

Nel libro cita anche il leggendario impresario, eletto nella Hall of Fame di Cooperstown, Alex Pompez, il quale voleva reclutare un certo Fidel Castro nei suoi New York Cubans, giurando che il futuro Lider Maximo non fosse così male come “pelotero”. Poi fa dire a uno dei suoi personaggi: “Se Castro avesse firmato, Cuba sarebbe ancora nostra (degli americani).”

Lo crede davvero?

E sempre a proposito di Cuba, è d’accordo con l’iniziativa anarchica di Orlando “El Duque” Hernandez di guidare la nazionale dei cubani “dissidenti” – i giocatori che giocano all’estero, in contrasto con il governo di Cuba – al prossimo World Baseball Classic?

EF. “Quella su Fidel Castro è soltanto una battuta: la rivoluzione a Cuba avrebbe potuto esserci lo stesso. Ma è vero che talvolta un uomo cambia la storia e se Fidel avesse trascorso la vita a New York invece che a L’Avana, chissà …  Con la fantasia possiamo immaginare anche il contrario, che se Castro fosse diventato un grande campione di baseball negli Usa, la sua fama nello sport lo avrebbe aiutato ad abbattere la dittatura a Cuba ma a farne una democrazia? Tema per un altro romanzo. Quanto a invitare i cubani dissidenti al torneo, non conosco abbastanza bene la questione per pronunciarmi in un senso o nell’altro, ma una cosa è certa: la politica entra anche nello sport, come abbiamo visto con i boicottaggi olimpici o con il bando alla Russia ai Mondiali di calcio e alle squadre russe nella Uefa per l’invasione dell’Ucraina”.    

 

Potrebbe regalare – anche “bukowskianamente” – un saluto personale agli amici e ai seguaci del Bar del Baseball?

EF. Un club di amici e seguaci come il vostro, che contiene la parola ‘bar’ nel suo nome, sarebbe sicuramente piaciuto a Bukowski, scrittore americano molto legato a John Fante, che al bar ha trascorso l’esistenza: io riuscii a incontrarlo quando ero giovane, andando a bussare a sorpresa alla sua porta, e fui immediatamente invitato a passare il pomeriggio a bere birra con lui. Alla salute del Bar del Baseball, allora, con l’augurio di bere presto una birra insieme!” 


(Fonte immagine: archivio privato si Enrico Franceschini)

(Immagine di copertina: cover del libro «Un gioco perfetto»; immagine del testo: primo piano di Enrico Franceschini)

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