IL WORLD BASEBALL CLASSIC ‘23: UN TRIONFO … IN TUTTI I SENSI! UNA CONSIDERAZIONE DI IGNAZIO GORI

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IL WORLD BASEBALL CLASSIC ‘23: UN TRIONFO … IN TUTTI I SENSI!

30 Mar , 2023  

di Ignazio Gori

Cominciamo da due dati strabordanti.  

1.L’affluenza negli stadi in questa edizione del World Baseball ClassicTaiwan, Giappone e Stati Uniti – ha superato il Milione di spettatori paganti (sic!). 

 

2.Il quarto di finale giocato a Tokyo tra i padroni di casa e l’Italia di Mike Piazza, con oltre il 48% di share televisivo è stata la partita di baseball più vista nella storia della televisione nipponica. Nonché, l’ultimo e decisivo strikeout di Shohei Ohtani su Mike Trout, ha fatto raggiungere il picco inverosimile del 97.4% di share dei televisori accesi in Giappone.    

 

Sì, amici del Bar del Baseball, perché nemmeno il più fantasioso degli sceneggiatori cinematografici avrebbe scritto un finale più “thrilling” di quello accaduto davanti agli occhi dei 36mila spettatori del Loan Depot Park di Miami. Le due star del torneo, nonché compagni di squadra nei Los Angeles Angels, si sono ritrovate una di fronte all’altra, cercando di camuffare la tensione in quello che probabilmente resterà il momento clou della loro carriera agonistica. L’esultanza di Shohei Ohtani, nominato giustamente MVP del torneo, che scaraventa il cappellino come impazzito di gioia, è la cartolina di questa quinta edizione del Classic che ha espresso un altissimo livello di gioco.

Come diceva il compianto Gianni Minà, in un qualsiasi lavoro è importante la tecnica ma ancor più importante è l’approccio, l’atteggiamento mentale e in questo connubio di forze il Giappone del manager Hideki Kuriyama si è dimostrato il team migliore, realizzando la tripletta delle competizioni internazionali, dopo i trionfi nell’ultimo Premier12 e nelle olimpiadi casalinghe. 

Molti a questo punto diranno: ma il loro round preliminare di qualificazione, con Korea, Australia, Rep. Ceca – ottima squadra e organizzazione – e Cina, era senz’altro il più facile dei quattro!  

Forse è vero, ma resta comunque meritata questa terza vittoria al Classic dei giapponesi, dopo i successi del 2006 e 2009. Ricordiamo che il Sol Levante non aveva mai vinto – 1 argento e 5 bronzi – le Amateur World Series organizzate sin dal 1938 dalla federazione mondiale e interrotte nel 2011 per far spazio a questa joint venture tra WBSC e MLB, di grande effetto, livello di gioco e risonanza mediatica. Come i professionisti americani anche quelli giapponesi avevano un atteggiamento snob nei confronti del vecchio mondiale, che ritenevano un torneo minore, preferendo inviare selezioni sperimentali di giovani promesse.     

Ma tornando al Classic, la finale che tutti gli appassionati volevano è stata una guerra fredda di lanciatori. 3 a 2 il finale per i giapponesi che erano andati subito sotto 1-0 al secondo inning grazie al fuoricampo di Trea Turner, il migliore della sua nazionale in tutto il torneo. Sarà Munetaka “Godzilla” Murakami, già eroe della sofferta semifinale con il Messico, a pareggiare i conti con un “pepitone”. Il vantaggio del Giappone lo sigla l’ottimo prima base Okamoto con un altro fuoricampo. Sul 3-1 Giappone, all’ottavo, Yu Darvish, che come rilievo e gestore dei momenti clou della partita non mi ha mai convinto, concede a Schwarber (l’anno passato 46 “pepitoni” per i Phillies, mica male) il fuoricampo del -1, ma sarà un impeccabile Shohei Ohtani, che aveva battuto come DH anche una valida e conquistato una base su ball, a sigillare punteggio e torneo con quel K sul “Trota” (alias Mike Trout) ormai divenuto iconoclasta. 

La concretezza e la strategia dal monte sono state le chiavi della partita e di tutto il torneo per il Giappone, che ha avuto solide prestazioni da tutti i rilievi, da Itoh a Ota, da Imanaga a Takahashi, fino a Togo. 

Il lineup tipo di questo Giappone recita: Nakamura (c), Okamoto (1b), Yamada (2b), Genda (ss), Murakami (3b), Yoshida (lf), Nootbaar (cf), Kondoh (rf), Othani (dh) e una super rotazione di partenti: Othani ovviamente, Yamamoto, Darvish, Sasaki, l’unico a realizzare un perfect game nella storia del campionato giapponese. Gli appassionati potrebbero sbizzarrirsi a immaginare cosa farebbero questi in una ipotetica stagione MLB, ma credo che non sarebbe facilissimo batterli.

Con la vittoria del Giappone l’Italia di Mike Piazza, tanto bistrattata in patria per via della sua composizione che alcuni hanno osato definire “astratta”, ma assolutamente meritevole, si è piazzata al quinto posto, miglior piazza-mento della nostra storia in questa manifestazione. E non è cosa da poco dando uno sguardo ai roster delle formazioni finite nelle retrovie.

Piazza ci ha s-piazzato? Sicuramente ha gestito una ottima squadra, piena di talento, solida soprattutto dal punto di vista difensivo.  

Nel prossimo WBC, che il commissioner della MLB Rob Manfred ha ufficializzato nel 2026, ci aspettiamo un altro “miracolo azzurro” e magari un miglior trattamento mediatico, tenendo salvo il buon lavoro televisivo di SkySport, quello assodato del Bar del Baseball e di pochissimi altri canali informativi. 

 

Lasciatemi finire con delle pillole assolutamente personali.

La squadra sorpresa?

Il Messico, che ha sfiorato la finale e poi chissà. La posa a braccia conserte dell’esterno Randy Arozarena – ottimo torneo per lui – ha scatenato una mania febbrile sui social.

Menzione speciale per il miracolo sportivo della Rep. Ceca, un esempio di organizzazione e dedizione da seguire. Andatevi a vedere il documentario Small country, big dreams (https://www.youtube.com/watch?v=0Y6DIpkAdP4).  

La squadra delusione?

Facile, la Rep. Dominicana, che lanciatori a parte (escluso Alcantara) aveva il lineup più forte di tutti. Il round preliminare di qualificazione era una piscina di squali (con Porto Rico, Venezuela, Israele e Nicaragua) ma se hai Devers, Machado, Franco, Soto, Julio Rodriguez, Nelson Cruz, Teo Hernandez e Robinson Canò e tante altre star della MLB non ci sono molte scuse. 

Altra delusione è stata la Korea, che ha mancato il secondo posto, dato per sicuro, nel pool di Tokyo, a scapito della ostica Australia.    

Il personaggio? 

Laars Nootbaar. Primo non-giapponese di nascita, padre olandese e madre giapponese, a far parte della nazionale nipponica, e da titolare. Un dato dal valore storico doppio se consideriamo l’orgoglio identitario giapponese. Un passo concreto verso l’integrazione, uno dei valori portanti dello sport contemporaneo e soprattutto futuro.  

La polemica? 

A proposito di Nootbaar … l’ho ribadito altrove, parlare ormai faziosamente di “oriundi” in tutto il panorama dello sport odierno è diventato semplicemente anacronistico. Ci sono casi e casi, competizioni e competizioni e va considerata la natura agonistica dell’evento in questione come le ragioni organizzative e selettive di ogni scelta. 

L’opinione tecnica?

A causa delle (per me e non solo) assurde restrizioni dei lanci per i partenti, il WBC è stato definitivo un torneo “da rilievi”, il che non toglie nulla forse al valore complessivo del gioco ma stravolge inevitabilmente le strategie di squadra e magari il sogno di un  complete, di un no-hit, di un perfectdi un certo tipo di spettacolarità poetica insita nella speranza.    

Accantonata la follia dei sette inning (Oh God of Diamonds have mercy!) per favore, lasciate il baseball al baseball!    

La statistica? 

Con la vittoria della finalissima il Giappone aggiorna il suo record al WBC di 30 vittorie a fronte di solo 8 sconfitte. 

Il motto? 

Come dicono i giapponesi, devi avere l’atteggiamento mentale giusto, devi sentirti in armonia con l’attimo che stai vivendo. You gotta have Wa! 

 

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