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755 e non fermarsi … uno swing contro il razzismo. L’umanissimo esempio di Mr. Hank Aaron

24 Gen , 2021  

di Ignazio Gori

 “Abbiamo avuto presidenti americani. Abbiamo avuto tutti i tipi di persone illustri e atleti famosi. Ma come ho già ribadito, col massimo rispetto per gli altri, ai miei occhi nessuno è come Henry Aaron.”  (Bob Kendrick, direttore Negro Leagues Museum)

 

Dopo Al Kaline e Tom Lasorda, un pezzo dopo l’altro, il puzzle del baseball del ‘900 si va scomponendo sulla Terra per ritrovarsi altrove. Ma questo è speciale. Questo è speciale davvero. Il video dell’8 Aprile del 1974, che lo immortala alla storia di questo sport (e non solo), quello della frantumazione dell’allora record all-time di fuoricampo (Vin Scully calls Hank Aaron’s historic 715th home run – YouTube) è uno dei “must” imprescindibili per gli amanti delle imprese sportive e in questo caso anche umane. I quattro ori di Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino 1936, davanti a un Hitler decisamente “attapirato”; la maratona vinta a piedi scalzi da Abebe Bikila, a Roma nel 1960, i 100 assurdi punti di Wilt Chamberlain in una sola partita di pallacanestro, il gol di Roger Milla a 42 anni scoccati nei Mondiali di Calcio di USA ’94 … la storia dello sport “black” è davvero nutrita, ma la vicenda umana di Henry Louis Aaron (Mobile, 5 febbraio 1934 – Atlanta, 22 gennaio 2021) che ieri ci ha lasciati a 86 primavere è davvero speciale e non solo per i 755 fuoricampo (dietro solo a Sadaharu Oh e Barry Bonds) che hanno fatto fare un passo indietro a Babe Ruth, il mito assoluto dell’America bianca.

L’esterno destro (e prima base) nativo dell’Alabama, ha vinto una sola World Series, pochino per un fuoriclasse come lui, ma storica se consideriamo le circostanze. Con 44 HR, 132 RBI e una media battuta di .322, nella stagione 1957 “Black Hammer” ha trascinato i Milwaukee Braves (prima del trasferimento nella città della Coca Cola[1]) ad una inaspettata vittoria alla settima contro i formidabili Yankees, ammutolendo i 61mila tifosi del Bronx. Inutile dire che di quella serie fu anche eletto MVP. Erano i Braves (sotto il logo, che oggi ahimè sarebbe sicuramente “bannato” come razzista) del manager Fred Haney e di altri campioni[2] – come Eddie Mathews[3], altro straordinario fuoricampista – che si sarebbero ripresentati all’ultimo atto stagionale anche l’anno successivo, nel 1958, salvo perdere stavolta ancora alla settima contro gli Yankees.

Indossando per 21 stagioni la casacca dei “Braves” (e 2 quella dei Milwaukee Brewers al fin di carriera, una specie di saluto romantico alla città che lo aveva accolto), Aaron è considerato una delle più grandi star provenienti dalle Negro Leagues, da poco “riabilitate” a livello statistico dalla MLB ed equiparate giustamente in quanto a valore sportivo a quella che per quasi 50 anni (dall’inizio del ‘900 fino a Jackie Robinson, nel 1947) è stato – tranne rarissimi casi pre-National/American League, indietro fino al 1870 – il campionato dei bianchi. Per essere più precisi, chissà a quanto ammonterebbe il totale degli HRs di Hank se si avesse la certezza di quelli messi a segno con gli Indianapolis Clowns, mitica squadra “Negro” (foto sotto) per i quali ha giocato dal 1952 fino al debutto in MLB nel 1954. Le fonti del “Negro League Baseball Museum” di Kansas City (www.nlbm.com) ci dicono che nella stagione 1952 il nostro ha tenuto una media al box di (siiic!!!) .467, guidando ovviamente la Negro American League in questa statistica. C’è arrivata la certezza di soli 22 “pepitoni”, ma, come è ovvio dedurre, la cifra reale sarà sicuramente molto più alta.

(figurina molto rara del 1976)

Hank ha suscitato non poco imbarazzo, non è mai troppo parlarne, all’America bianca e razzista, ma quando nel 1982 c’era da eleggerlo nella Hall of Fame di Cooperstown i votanti si sono espressi con una roboante percentuale di assenso di 97.8%, seconda solo a quella riservata a un altro mito del baseball bianco, Ty Cobb, indotto nel 1936.

I have a dream” salmodiava Martin Luther King, cittadino di Atlanta che Aaron ha conosciuto bene e ammirato. “I have a dream …” e tutti i George Floyd del mondo non potranno cancellare questo sogno. Nel suo cammino pieno di umiltà e fierezza, Aaron questo sogno non lo ha mai dimenticato, nonostante tutte le umiliazioni dell’infanzia e quelle subite da grande, generate dall’indifferenza del mondo mediatico bianco. Un’indifferenza che fa male tutt’oggi, non solo al mondo del baseball, ma alla morale umana tout court, espressa, per citare solo un episodio, dal Commissioner della MLB in carica nel 1974, Bowie Kuhn, che ha pensato bene di non presentarsi allo stadio in quella partita contro i Dodgers, nell’eventualità di dover onorare un “negro”, che tale doveva restare, a prescindere dai 715 fuoricampo scagliati in faccia al KKK.

(Aaron “ospite” in una puntata delle mitica serie Tv, molto amata anche in Italia “Happy Days”, ambientata proprio a Milwaukee, dove il campione ha vissuto e giocato molti anni. Fonte: www.edition.cnn.com)

Solo un sussulto nella pura umiltà di Aaron, che ha attraversato la coscienza popolare come pochi altri campioni dello sport hanno saputo fare (Jim Brown nel football? Pelè nel calcio, omaggiato da John Huston in un film super antirazzista come “Fuga per la vittoria”?). Quando infatti gli dissero che c’era un giapponese, tale Sadaharu Oh, che aveva battuto più fuoricampo di lui, non solo il nostro eroe non si mostrò turbato o scettico, ma al contrario fu felice (alla faccia del razzismo, che tra americani e giapponesi è ancora più subdolo). Volle conoscerlo a tutti i costi e da questa amicizia speciale, tra due uomini “speciali”, nacque un progetto internazionale di propaganda del baseball tra i giovani di tutto il mondo, il “World Children Baseball Foundation”, e da esso il “World Children Baseball Fair” un prestigioso camp a cadenza annuale, una specie di vetrina per i migliori talenti in erba del globo. Considerati come Ambasciatori Mondiali del Baseball, la “strana coppia” formata da Aaron e Oh, ha saputo sublimare il proprio vangelo sportivo distruggendo barriere e divisioni, razziali e geografiche, in una serie di iniziative di sensibilizzazione al vero spirito sportivo universale. Lo ricorda bene Ruggero Bagialemani, storico capitano del Nettuno e recordman di presenze della Nazionale Azzurra, che nell’Agosto del 1990 ha avuto l’onore di conoscere sia Oh che Aaron (foto di copertina, gentilmente fornita da Ruggero Bagialemani) in occasione di un “All-star game” tra America, guidata da Aaron e Resto del Mondo, la squadra di Bagialemani, guidato dal Divino Oh. Uno di quegli incontri folgoranti, capaci di cicatrizzare gli strappi del tempo.

The gypsy woman told my mother/Before I was born/I got a boy child’s coming/He’s gonna be a son of a gun. Una zingara disse a mia madre, prima che io nascessi: “Avrai un bambino e sarà un grande bombardiere”. Cantava così, in maniera profetica, il grande bluesman Muddy Waters. Ma uno come Hank non rinasce più. Statene certi.       

(Sadaharu e Hank, il baseball senza confini. Fonte: www.stripes.com) 

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Per sapere di più riguardo la vita leggendaria di Hank Aaron consiglio la visione del documentario: Hank Aaron: Chasing the Dream diretto nel 1995 da Michael Tollin, candidato al premio Oscar per il miglior documentario.

 

[1]Molti non sanno che i Braves, prima di stanziarsi a Milwaukee, erano i cugini di casa dei Red Sox, a Boston, dove hanno vinto le World Series del 1914. Hanno avuto inoltre l’onore di avere in roster nel 1935 uno stanco Babe Ruth, all’ultimo anno di una carriera leggendaria.

[2] In quella squadra c’era anche il prima base Frank Torre, fratello di Joe Torre, poi divenuto una leggenda vincendo da manager 4 World Series con gli Yankees

[3] Aaron più Mathews = 863 fuoricampo in 13 anni di “Braves”, record MLB per una coppia della stessa squadra

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