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L’AGENDA DEL COACH: 1° “EUROPEAN BASEBALL COACH EXPERIENCE”

26 Nov , 2019  

Recita bene la dicitura dell’evento, in quanto la prima edizione dell’European Baseball Coach Experience più che un clinic è stato una vera esperienza, e non solo per chi sta scrivendo. Con questo vorrei esprimere il mio personale augurio ai promotori dell’evento, nonché quello di tutto Il Bar del Baseball, affinché questa sia la prima di molte altre e proficue edizioni.

Organizzato da Travelball e dai Roma Brewers, sotto il patrocinio della Regione Lazio, del Comune di Roma, della WBSC Europe, della Federazione Italiana Pallacanestro (Regione Lazio), della Fibs e della Confederation of European Baseball, l’EBCE (sigla) ha aperto ufficialmente i battenti sabato 23 Novembre, ospitato dalla Sala Auditorium nella splendida cornice del Palazzo delle Esposizioni in Roma, dove erano in programma numerosi interventi riguardo molti aspetti didattici del gioco, dell’organizzazione manageriale e dello sviluppo tecnico. Sotto l’attenta regia di Marco Sforza, giornalisti, tecnici, atleti, educatori e appassionati seguitori del movimento, hanno potuto assistere alla passerella di alcuni grandi professionisti, tra cui, star principale, dobbiamo menzionare Brian Snitker [1] (foto) manager degli Atlanta Braves (Mlb), appena nominato Manager of the year per la National League e senza dimenticare Derek Johnson, pitching coach dei Cincinnati Reds, e ancora Chris Colabello, che oltre ad essere un campione sul campo si è dimostrato un grande comunicatore, Jim Mansilla, ex manager della nazionale azzurra, il guru Ron Maestri, con il prezioso collante di Gianfranco Pavone, Mario Chiarini, Gianguido Poma e Marco Nanni: davvero un cast di relatori all-star da dedicare alla rinascita e allo sviluppo del baseball italiano: “rinascita” perché siamo piombati in una sorta di neo-medioevo del baseball nazionale, un periodo oscuro del nostro movimento che ha bisogno di nuova linfa ed entusiasmo (Mike Piazza manager della nazionale è solo il primo sussulto? Ci piace pensarlo) e “sviluppo” perché, come insegnano gli americani, anche lo sport è metro di progresso sociale e di efficienza economica.

Gli interventi sono stati aperti da Andrea Capobianco, coach della nazionale femminile di basket che, come introduzione e tessuto narrativo portante, ha introdotto, da grande motivatore qual è, l’apparato motivazionale del giovane atleta da formare verso il professionismo. Sono d’accordo con gli organizzatori nello scegliere un grande professionista di un altro sport, nel caso il basket, perché quando si parla di insegnare la consapevolezza, l’accettazione dei limiti personali, l’ascolto partecipativo … non ci sono distinzione tra sport e sport; la “professionalità” è universale. Fonte di sorpresa è stata per me la teoria di Capobianco sulla capacità di un coach di “saper osare”, ovvero la grandezza di un allenatore misurata al 50% tra capacità tecnica/conoscenza del gioco e intuito istantaneo. Dopo Capobianco è stata la volta di Brian Snitker, il quale essendo stato allenato al college – University of New Orleans – da Ron Maestri, altro illustre relatore dell’evento e tra i massimi conoscitori del gioco, non può che dimostrarsi molto preparato, con una buona dose di modestia e di capacità comunicativa. La preparazione umana e tecnica non è sempre sinonimo di capacità espressiva e di empatia, ma debbo dire che nel caso di Snitker queste caratteristiche si fondono, mostrando uno spessore umano davvero notevole. Gli Atlanta Braves – che Snitker allena dal 2016 – hanno vinto la East Division nelle ultime due stagioni, ma si sono arenati nelle Divisional Series dei playoff contro i St. Louis Cardinals, peccando, da squadra giovane, di inesperienza. Snitker ci ha tenuto a precisare che le sue capacità di allenare sono state “evolute” dalle sue scarse capacità di giocatore, ma scherzi a parte, resta indubbia la spiccata capacità tecnica e motivazionale. Il suo intervento è stato incentrato sulla tecnica di compilazione di un “lineup ideale”, anche se non amo molto questa definizione così rigida, in quanto – e in questo concordo pienamente con il 64enne manager nativo di Decatur, Illinois – la compilazione del lineup, pur attenendosi a statistiche e procedure tecniche, dovrebbe basarsi su un concetto mentale, ovverosia lasciare ai singoli giocatori la possibilità di scegliersi la posizione di battuta, non in base a criteri preconcetti – del tipo: “Sono il più forte e batto prima di altri!” – ma in utilità alla squadra e alla sue caratteristiche tecniche complessive. Tutti i manager infatti dovrebbero sapere che non esiste un “lineup ideale” della propria squadra e tutti e nove i giocatori dovrebbero essere giudicati ugualmente e singolarmente. Per queste bellissime parole oserei definire Snitker un manager “emozionale”. Prendiamo per esempio il lineup-tipo dei Braves di quest’anno:

 

  1. R. Acuna, (R) CF
  2. O. Albies, (S), 2B
  3. F. Freeman, (L), 1B
  4. J. Donaldson, (R), 3B
  5. N. Markakis, (L), RF
  6. A. Duvall, (R), LF
  7. B. McCann, (L), C
  8. D. Swanson, (R), SS
  9. M. Foltynewicz, (R), SP

 

Questo ordine sembra impeccabile, a livello statistico intendo, ma non è così semplice. Snitker è particolarmente fissato con la posizione numero 4 – in questo caso Donaldson, il miglior battitore – e prende come esempio un altro grande giocatore del passato, il terza base Chipper Jones, campione delle ultime World Series vinte dai Braves nel 1995, MVP della National League nel 1999 e 2 volte Silver Slugger; anche lui essendo il miglior battitore della squadra batteva da 4 e non era un caso. Il 4 per Snitker è un po’ l’ago della bilancia, ma, aggiunge scherzando, è solo una “fissazione personale” e non è una regola fissa che il miglior battitore debba battere come quarto. I primi 6 sono fondamentali per creare l’opportunità-punto della squadra ma ogni manager deve essere pronto a resettare la sua formazione granitica nel corso della stagione. Gli spot più “caldi”, i più difficili da compilare sono dal 6 al 9, in quanto si deve prendere in considerazione se far battere o meno e in che posizione il catcher. Snitker ha spiegato – anche per il fattore “DH” –  quanto sia diverso in Major League la compilazione del lineup nella National League rispetto all’American, ma la cosa più importante, valida a livello mondiale, sta tutta nel concetto: “ripetitività uguale affidabilità”; un concetto che dovrebbe essere misurato scientificamente nelle statistiche di ogni squadra. Quasi un mantra oserei dire.

 

 

Come accennato, collegato a Snitker, c’è Ron Maestri, suo allenatore al college. Maestri è una vera istituzione nell’area di New Orleans, avendo allenato per molti anni sia l’università locale – University of New Orleans: 2 titoli di Conference e una partecipazione alle NCAA World Series – sia i New Orleans Zephyrs nelle minors. Come tutti i veri “maestri” (nomen omen) formatori di giovani promesse, nel suo impeccabile aplomb di “smart teacher” – alla Pat Riley, per citare un illustre collega nel basket – Ron nel suo intervento ha insistito sul concetto di allenare tenendo particolarmente conto del coinvolgimento emotivo del giovane atleta. Secondo la pluriennale esperienza di Maestri, il problema principale dei giocatori di baseball in erba è il sentirsi poco coinvolti nel gioco, col pericolo che cali il divertimento, il sentirsi “parte integrante di un gruppo”, e questo, per il bene del nostro sport, non deve assolutamente accadere. Maestri ha usato il perfettamente calzante esempio degli esterni, per molti stralci di gioco costretti a seguire da fermi l’evoluzione della sfida tra lanciatore e battitore. In una partita di basket o di calcio si è continuamente in movimento ed è quasi impossibile perdere la concentrazione, ma non nel baseball, dove anche l’immobilità è movimento, anche l’immobilità deve essere segno di efficienza tecnica e di concentrazione. Questo rende questo sport unico nel suo genere, lo sport più “filosofico” del mondo. Gli esterni dovrebbero più di tutti praticare lo yoga per cercare di saturare al meglio il loro vuoto e sublimare la capacità di concentrazione per lunghi periodi; un concetto davvero bellissimo. Per fronteggiare ogni possibile mancanza di divertimento e dunque per scongiurare la possibilità di cambiare sport, occorre assolutamente imparare ciò che Mr. Maestri definisce “allenare la noia”; magari utilizzando quella che Gianguido Poma, manager del Parma e altro relatore dell’incontro, ha scolpito nella mente di tutti gli auditori utilizzando la “sacra vulgata” del baseball: “con la battuta si vince la partita, ma con la difesa, anzi con la presenza difensiva, si vince il campionato”.

Anche l’apporto di Chris Colabello – medaglia d’argento agli ultimi Europei in Germania con la maglia azzurra –  è stato particolarmente interessante. Con la solita ironia tutta riminese che contraddistingue l’esterno ex Mlb, Colabello ha voluto intitolare il suo intervento parafrasando Sergio Leone: “The Good, the Bad … and Reality” – Il Buono, il Brutto … e la Realtà”. Perché la Realtà? Perché la realtà del baseball deve per forza di cose venire a sposare le nuove tecnologie. Secondo quanto esposto da Colabello, sorge il problema di coniugare ai fini dell’utilità statistica, i nuovi software che elaborano i tantissimi dati forniti dalle prestazioni dei giocatori, in particolar modo il focus è rivolto ai software che analizzano la battuta e i suoi indicatori numerici. I numeri sono molti, troppi, e spesso in passato gli ingegneri statistici sono letteralmente andati fuori di senno nel decifrare le migliaia di cifre atte a indicare ad esempio solo la velocità rallentata di un giro di mazza. Si è parlato ovviamente di attrezzi già in uso presso i club delle Major League e non solo, per qualsiasi tipo di aspetto tecnico del gioco, tutto per migliorare le capacità dei singoli e dare al coaching staff l’aiuto e il supporto necessario a livello statistico. Ma come fronteggiare l’onda anomala delle cifre, sempre più richieste ma bisognose di chiarezza? Ed è a questo scopo che nasce “Pelotero” (in spagnolo “giocatore”) un nuovo ultra-software avanzato, specifico per la battuta, un sistema creato per il bene di tutto il baseball perché tutto il baseball ha disperato bisogno di maggiore “linearità statistica”. Come indicato dal relatore le statistiche hanno nel loro intrinseco messaggio il “buono e il brutto” lato di una performance, ma quello che più interessa è che indicano una “realtà”, la realtà dei fatti e questa, per una maggiore efficienza sportiva, deve essere letta nel migliore dei modi; le statistiche migliori sono quelle lette e interpretate “tra le righe”, quelle cioè che non balzano agli occhi di tutti i lettori e gli analisti, ma solo ai più attenti “interpreti della realtà”.

A mio avviso l’intervento più interessante di questo primo European Baseball Coach Experience è stato quello finale di Jim Mansilla, storico membro dello staff della nazionale italiana in tante competizioni degli anni ’80 e da anni attivo nella Miami Dade University. Big Jim ha parlato delle possibilità di accedere a una borsa di studio negli Usa. La decisione di affrontare questo argomento nasce dall’urgenza di arginare il sempre più costante flusso di giovani atleti che decidono alla cieca di firmare contratti per le minors, attirati dal sogno americano delle Major Leagues. Per la maggior parte di questi atleti la realtà si dimostra diversa dalle aspettative, in quanto la frenetica attività del baseball americano, la camaleontica natura del continuo dentro-e-fuori delle leghe minori, non permette ai nostri atleti di esprimersi subito al meglio. In questi casi anche chi ha un buon talento rischia di sgretolarsi. Mansilla, che da anni e con saggia competenza svolge la funzione di mediatore sportivo tra l’Italia e gli Usa, afferma che per un contratto inferiore ai 50,000 dollari non vale la pena rischiare ed è di certo più saggio accettare una borsa di studio. I vantaggi?  Molti. Jim ha indicato il college della Miami Dade come esempio portante, un Junior College di 160.000 studenti dove è uscito persino l’hall of famer Mike Piazza. Il Junior College è una grande opportunità per i giovani atleti, prevede solo due anni di studio con la possibilità di accedere al professionismo anche dopo un solo anno. In più ha – e questo tutto a vantaggio di un giocatore europeo – un calendario sportivo e studentesco più abbordabile, in modo da non creare uno “shock” culturale nell’animo del giovane atleta a contatto con una realtà straniera, uno “shock” che potrebbe influire negativamente sulle prestazioni sportive. La base di questa grande opportunità – di cui Jim Mansilla si fa portavoce anche con il prestigioso torneo “Tutto il mondo viene a Palm Beach” da lui organizzato ogni anno a Miami – è ovviamente il talento, i mezzi atletici, in mancanza dei quali gli americani, essendoci per il baseball una aspra concorrenza, non assicurano la copertura economica. La borsa di studio dunque per cullare un sogno da professionista nel baseball sarebbe l’ideale e i giovani italiani non devono farsi fuorviare da scorciatoie ingannatrici. Un consiglio davvero prezioso. L’augurio è quello di imitare Liddi e Colabello, anche se quest’ultimo, secondo le parole piene di emozione e ammirazione di Mansilla, è stato il creatore di un piccolo “miracolo”: quanti infatti potrebbero aspirare alle Major Leagues dopo otto anni di independent leagues? Quanti arrivare ai vertici dell’American League? Quello di Mansilla è ovviamente un augurio poetico, ma in alternativa a questo c’è una sicura base economica da cui partire ed è costituita dalla concreta possibilità della borsa di studio.

Il Bar del Baseball è stato davvero lieto di partecipare e promuovere l’European Baseball Coach Experience attraverso i suoi canali e ringrazia l’organizzatore Marco Sforza e tutto lo staff dell’evento per la squisita ospitalità e l’opportunità offerta per promuovere il baseball nel nostro paese, attraverso la presenza di grandi professionisti di calibro internazionale.

Ignazio Gori

 

 

 

[1] Disponibile la mia intervista su youtube e sulla pagina FB de Il Bar del Baseball 

(fonte foto Brian Snitker: www.talkingchop.com – Vincenzo Diana per Il Bar del Baseball)